giovedì 24 maggio 2012

Più padri nel blogroll

In questi giorni mi sento un po' decadente. Forse è colpa delle condizioni meteo, che fanno molto Autumn in New York, ma che siccome non siamo a New York, fanno solo Autumn. Comunque non so, sono stanca. E di certo i miei figli non mi aiutano, anzi, se possono, mi danno la mazzata definitiva. Domenica pomeriggio infatti, ho portato il mio primogenito al cinema a vedere The Avengers, il film sui supereroi. E siccome c'era anche Capitan America che fa molto anni Ottanta, prima del film ho portato Lorenzo a fare una cosa in linea col periodo storico: un panino al Burger King. Non me ne voglia Mc Donald's, ma in quella zona c'era solo la concorrenza. È stata una bella idea: mio figlio ed io a mangiare junk food prima del cinema. Mi sono sentita molto complice, molto gggiovane. E poi anche molto patetica. Su ogni tavolo c'erano delle corone di cartoncino e io ne ho indossata subito una, dicendo a Lorenzo: "Guardami! Sono la tua regina!" e muovevo la testa a destra e sinistra pensando di essere in quel momento il top della madre che ogni bambino vorrebbe avere. Ci ha pensato mio figlio a ridimensionarmi subito, dicendomi, abbassando la voce: "Mamma, dai, ci stanno guardando tutti..."
Ora, mio figlio ha cinque anni e mezzo, un'età che pensavo potesse rientrare ancora nell'infanzia. Voglio dire, non ne ha 16. È un bambino piccolo, e quindi io dovrei essere a pieno diritto una madre giovane. Capite adesso la mia depressione? In quel Burger King mi è stata negata un'illusione. Sono improvvisamente diventata la madre vecchia e rincoglionita che fa delle cose stupide che non fanno ridere nessuno. Così, dopo aver scartato tutti i cetrioli del panino e aver rifiutato le patatine fritte col ketchup e la salsa rosa, mio figlio mi ha pregato di portarlo al cinema. E ci sarebbe andato volentieri da solo se avesse avuto un reddito minimo.
La depressione inizia a passarmi soltanto oggi, perché ci sono improvvisamente 30 gradi ed è tornato il sole, ma soprattutto mi viene incontro la pubblicità su facebook, che mi assicura che non sono poi tanto da buttare, che mi ricorda che dopotutto sono ancora fertile e che il marketing mi ha inclusa in una segmentazione di donne tutto sommato giovani:


Siate finalmente libere !
fleurcup.com
Vivete questa nuova
sensazione di libertà
femminile, dimenticatevi
tamponi e assorbenti,
scoprite Fleurcup !

Adesso mi sento veramente sollevata.
Comunque tutto questo non c'entra niente con quello che volevo dirvi. Era solo un mio sfogo personale, perché dopotutto non è che si può sempre stare sul pezzo: ogni tanto sui blog ci va pure qualcosa di personale, no? Oggi va così, ma una cosa importante ve la dico lo stesso: a seguito dei discorsi sui post precedenti, ho aggiornato il mio blogroll inserendo link ai blog di padri che meritano di essere inclusi in tutti i discorsi legati all'educazione dei figli e al progresso della nostra società verso una direzione più equa. Così, se anche a qualcuno di loro capiterà di sentirsi vecchio e patetico, lo sapremo subito e potremo consolarci a vicenda.


mercoledì 23 maggio 2012

Ridatemi i miei soldi

Faccio un'apparizione lampo solo per dare eco a una notizia fresca fresca riportata su corriere.it.
Pare che dal 2016 gli stipendi delle donne saranno equiparati a quelli degli uomini, a parità di ruolo. A parte che non ho capito perché ci vogliano quattro anni per entrare a regime. Cos'è, non hanno i soldi? E questo pensiero mi fa riflettere su quanti milioni di miliardi di euro le donne abbiano fatto risparmiare a Stato e imprese dalla nascita del mondo a oggi. A parte che non è chiaro se questa legge sarà valida solo per i dipendenti statali oppure per tutti. Cioè, anche le imprese saranno obbligate all'equa retribuzione? E quindi, nel mio pessimismo cosmico odierno mi chiedo: non è che adesso le imprese avranno una scusa in più per non assumere donne? In assenza di una reale cultura della parità, questa legge, se applicata anche al mondo privato, rischia di diventare un boomerang. Le aziende che ragionano esclusivamente nell'ottica del profitto e non in quella della sostenibilità (e in Italia sono ancora molte), o non assumeranno più donne, oppure abbasseranno gli stipendi agli uomini.
Sì, lo so, non sono mai contenta, ma le leggi devono andare sempre di pari passo con l'educazione, altrimenti si trova immediatamente il modo per stravolgerne il senso.
Intanto, mi piacerebbe che qualcuno mi restituisse i miei soldi.

lunedì 14 maggio 2012

Ve l'avevo detto

Non per essere pesante, ma vorrei dire una di quelle frasi che non si dovrebbero mai dire, una di quelle frasi che fanno tanto antipatia, fanno tanto Quattrocchi: "Ve l'avevo detto, io". Nel post sul video di P&G "a supporto delle mamme", si è discusso se questo fosse semplicemente un bel video, che valorizzava e gratificava il duro lavoro delle mamme, o se fosse piuttosto la solita operazione paraculo di marketing per cavalcare l'onda delle olimpiadi e nel frattempo vendere qualche fustino in più di detersivo a quelle stesse mamme che venivano santificate. Io propendevo per la seconda.
Ho trovato quel video svilente per tutte quelle madri che sì, si fanno un mazzo tanto per tirar su i figli, ma che vorrebbero anche seguire le proprie inclinazioni personali, oltre alla capacità (che hanno tutti) di fare il bucato. Ho trovato quel video svilente per tutti quei padri che magari vorrebbero accompagnare loro i figli agli allenamenti e preparare loro la colazione, ma una buona fetta di società (uomini, donne, aziende) li ritiene incapaci. E lo spot P&G certifica questo status quo e ce lo vende prendendoci con i buoni sentimenti.
Beh, insomma, sabato ero dal parrucchiere, e mentre sfogliavo una di quelle riviste che mi consentono un totale relax cerebrale, mi imbatto in questo: 
E indovinate cos'è? La traduzione pratica dello spot P&G per le mamme. Riporto i testi per i miopi. Titolo: Dash. Per le mamme di ieri, di oggi e di domani. Didascalia della prima foto: Andrea, luglio 1974. Didascalia della seconda foto: Andrea, luglio 2011. Claim: più Mamma (maiuscolo perché è importante) non si può. Marchio pubblicizzato: Dash, una marca P&G.
Ora, adesso potete dirmi quello che volete, anche insultarmi, ma non ci posso fare niente: io vedo un'immagine horror della nostra umanità. Un'immagine che offende sia gli uomini, sia le donne. Intanto vedo un idiota che appena si sbrodola come quando aveva 8 mesi, deve portare la camicia alla mamma. O forse non la porta proprio alla "mamma di ieri", ma a quella "di oggi", che poi sarebbe sua moglie. Insomma, il bucato proprio non è affar suo. Vedo una donna che è in realtà INVISIBILE in questo annuncio, probabilmente perché impegnata a pulire un pavimento. Perché del resto è questo che fanno le mamme no? Fanno le casalinghe. Ed è per questo che adesso lo spot P&G fa piangere anche me: perché sono madre di due figli, ma la mia funzione principale, per questa azienda, è fare il bucato. E in questo annuncio la verità salta fuori con tutta la sua forza ed evidenza. "Più mamma non si può": questo è il top aspirazionale per ogni madre. Il top della mammitudine per Procter & Gamble.
Ora ditemi: siete ancora convinti che lo spot a supporto delle mamme sia una bella iniziativa che valorizza il lavoro delle madri?
P.S.: Questo annuncio è stato pianificato su Wellness, inserto di Donna Moderna, del 15 febbraio 2012. 

giovedì 10 maggio 2012

Padri coraggio

Cavalco l'onda dei padri, ché non voglio proprio lasciarmela sfuggire. Quasi due anni fa scrissi un post molto cattivo sui padri, e un po' adesso me ne vergogno. Partivo un po' da lontano, riprendendo la storia di Edipo e domandandomi come mai per millenni ci siamo concentrati sul tabù del figlio che "giace" con la propria madre (inconsapevolmente, tra l'altro) e non sul padre Laio che perfora le caviglie del neonato e lo appende a una trave abbandonandolo. Insomma, non per giustificare Edipo, ma il poveretto è stato menomato e abbandonato da suo padre, è cresciuto lontano dai genitori, poi una sera pensa di trombarsi una bella donna e fra tutte, per sfiga, sceglie proprio la madre. Un po' di indulgenza, dico io! C'è stato un equivoco, non è colpa sua. Per esempio, se il padre non l'avesse abbandonato per paura di una stupida profezia, le cose forse sarebbero andate diversamente. Sicuramente Edipo avrebbe avuto ben chiaro nella mente chi era sua madre e con chi poteva o non poteva accoppiarsi. E Freud sarebbe morto di fame.
Quello che volevo dire in quel post, e che ribadisco adesso, è che dai padri, per migliaia di anni, non ci si è mai aspettato un granché. Cioè, a che doveva pensare mai il re Laio nella sua vita, se non al suo regno e al suo potere? Di sicuro non al figlio. E così la nostra umanità è andata avanti per molto tempo.
Certo, oggi esistono ancora padri poco presenti, padri che si illudono di essere bravi perché hanno cambiato un paio di pannolini e ogni tanto mettono a letto il bambino la sera. Padri che passano fuori casa 16 ore e in queste 16 ore nemmeno un minuto è dedicato a interrogarsi su "Chissà cosa starà facendo mio figlio adesso", oppure "Chissà se ci sarà il latte in frigo per domani". Di questo sono responsabili i padri stessi, che scelgono di non occuparsi dei propri figli, e anche le madri, che scelgono di accollarsi interamente l'accudimento dei bambini, spesso perché sono fermamente convinte che i padri non ne siano capaci. Ovviamente nessuno si sogna di porre la questione in questi termini così brutali. La mia è una provocazione. Ma la realtà pratica è questa: in molte famiglie, l'uomo è esentato dall'educazione dei figli con buona pace delle madri, che adorano vantarsi lamentarsi per l'impostazione multitasking che le porta a occuparsi di 700 cose contemporaneamente, dal lavoro, alla spesa, ai figli.
Ma adesso basta.
La realtà è questa, ma ce n'è un'altra emergente e molto diversa. Quel mio post molto cattivo lascia spazio a questo, nuovo e pieno di speranza. Alcune aziende si rivolgono ai padri in quanto padri. Nascono associazioni. Spuntano blog. Parlando con le donne, sono sempre più frequenti i casi in cui senti frasi tipo: "Mio marito è andato a portare nostro figlio dal pediatra", "Suo padre lo porta ogni giorno in asilo", "La sera è lui che cucina e dà la pappa al bambino".
Prendo spunto da un post di Genitoricrescono che domanda se le istanze per un rapporto più equilibrato tra generi possano passare proprio attraverso i padri. La questione è molto interessante, perché hai voglia tu a scendere in piazza con altre donne, hai voglia a protestare per le dimissioni in bianco, per gli asili, per le discriminazioni, ma se anche gli uomini iniziano a manifestare la propria esigenza di vivere come esseri umani e non come bestie da lavoro, se iniziano a volersi occupare di propri figli e dell'ambiente in cui devono vivere, beh, vuoi mettere la differenza?
Tornerò sull'argomento nei prossimi post.

martedì 8 maggio 2012

Ontologia di un padre

A parte che sto ascoltando musica per yoga e non aggiungo altro, volevo rendervi partecipi del fatto che "un altro mondo è possibile". A seguito delle recenti discussioni, su questo e altri blog, sulla vita delle madri, uniche depositarie del destino di atleti, non atleti, mariti, fornelli e pavimenti, vi lascio un debole segno di speranza anche per i padri, che, dopo tutto, potrebbero anche risentirsi per tutto questo ostentato monopolio femminile in campo educativo. Insomma, diamo un po' di riconoscimenti anche allo spermatozoo, no? Care donne mammocentriche e cari uomini fallocentrici, cerchiamo di venire a patti, su: le famiglie si costruiscono in due e ci sono aziende che sembrano essersene accorte. E guarda caso sono proprio le aziende che sono più vicine al mondo dei bambini, che qualcosa sapranno quindi.
Mi rendo conto che si tratta di un piccolo segnale, però c'è, e ci dimostra che includere i padri nel target della comunicazione si può, ed è sensato, e genera empatia.


Certo, si tratta pur sempre di un'immagine perdente del genitore maschio, ma per lo meno se ne certifica l'esistenza.
Piccoli passi. Piccoli passi.

venerdì 4 maggio 2012

Sterminio di uomini a Monaco di Baviera

Ahi ahi ahi! E qui la grande Germania mi perde di punti. Un'amica mi manda questa foto da Monaco di Baviera (ADORO questa vostra inclinazione alla foto-inchiesta).
Per le varie considerazioni su segnaletica e linguaggio iconico, non mi ripeterò e vi mando qui e qui.

Però non riesco a resistere alla tentazione di interpretare questo segnale. Non ce la faccio proprio a tenermi. Intanto analizziamo il contesto, perché il contesto è importante. Siamo in strada e sul marciapiede ci sono dei lavori: il percorso è interrotto da una transenna.
Adesso mi tocca spezzare una lancia in favore della segnaletica italiana, che quando ci sono dei lavori sul un lato della strada e ti invitano a camminare dalla parte opposta, mettono il cartello generico del pedone accompagnato da una freccia. Il pedone, significa TUTTI i pedoni: uomini, donne, bambini. Ma forse in Germania non è così. O forse in questo caso avevano finito il cartello giusto.
Fatto sta che qui mi si vuole dire una cosa. Provo a interpretare.
Versione letterale:
"Le mamme con i bambini devono camminare sul lato opposto, gli uomini sono invitati a scavalcare la transenna e magari fermarsi a dare una mano".
Versione ancora più letterale:
"Solo le mamme con i bambini possono camminare sul lato opposto. Le donne senza figli e gli uomini sono invitati a scavalcare la transenna".
Versione apocalittica:
"La popolazione maschile a Monaco è stata completamente sterminata, per cui il resto della popolazione, composta da madri con figli, deve camminare sul lato opposto".
Versione ancora più apocalittica:
"Assieme alla popolazione maschile, anche quella delle donne senza figli è stata sterminata. Le poche fortunate rimaste possono camminare dall'altro lato della strada".
Versione apocalittica soft:
"La popolazione maschile di Monaco è interamente impiegata nei lavori stradali, per cui il resto della popolazione, composta da madri con figli, deve camminare sul lato opposto".
Versione apocalittica soft delle pari opportunità:
"Oltre agli uomini, anche le donne senza figli sono impegnate nei lavori stradali, quindi il resto della popolazione, composta da donne con bambini, è invitata a camminare sul lato opposto della strada".
In ogni caso, qualunque sia l'interpretazione, io se fossi un uomo mi preoccuperei.


giovedì 3 maggio 2012

Lo sport più duro del mondo

Si avvicinano le olimpiadi di Londra e iniziano a fiorire le iniziative di comunicazione delle aziende. C'è uno spot in particolare che mi ha colpito, perché non parla di sudore, muscoli, concentrazione e voglia di vincere, per metterci sopra il logo dell'azienda. O meglio, si trattano questi argomenti, ma non come ci si aspetterebbe. Ve lo faccio vedere:



L'incipit di questo post è lo stesso di un mio guest post sul blog di Stefania Boleso, che però analizza il caso dal punto di vista del marketing e della comunicazione. In questa sede invece lo svolgimento sarà diverso. Ora vi chiedo, che cosa vi suscita questo spot?
Commozione.
Bene, poi?
Amore per la mamma.
Ok, poi?
Voglia di andare ad allenarmi.
Io, in quanto madre, non ho potuto fare a meno di immedesimarmi nelle protagoniste di questo spot. Mi è piaciuta la tenerezza con cui queste madri svegliano i propri figli la mattina. Mi sono detta: "Anche io faccio così". Beh, almeno quando non sono in ritardo e grido mentre sto contemporaneamente scaldando il latte e spalmando il fondotinta: "VUOI SCENDERE DA QUEL LETTO SI' O NO?!?" Ma i parallelismi finiscono qui. Infatti io poi vado a lavorare e se c'è uno dei miei figli da accompagnare in piscina, magari ci va il loro legittimo padre. Oppure i nonni.
Oddio, dite che i miei figli non diventeranno mai degli atleti perché non sono io ad accompagnarli agli allenamenti? Ecco, vedete? Sempre il solito stupido senso di colpa.
Comunque, quello che volevo sottolineare è che nella vita degli atleti, come in quella di tutti i bambini del mondo, c'è una madre e c'è un padre. Insomma, ci sono due genitori. DUE. Uno più uno, capite? E magari il padre ha anche piacere a stare con il proprio figlio, a fargli da mangiare, a vestirlo, a portarlo in piscina e a fare il tifo per lui. Magari quel padre stende anche la biancheria, oppure va a fare la spesa. Tutto questo senza rinunciare al proprio lavoro. Proprio come fa la madre.
Ma, come al solito, la realtà sembra essere un'altra. In questo spot, i figli li fanno solo le mamme. Mi ha veramente colpito la chirurgica assenza dei padri. Come sotto il fascismo, quando oltre alle persone, sparivano anche le parole straniere e i cognomi venivano italianizzati. Così ti viene subito da pensare: "Che stronzi questi padri, che non accompagnano mai i figli agli allenamenti e non fanno il tifo per loro durante le gare". E pensi che magari questi ragazzi si concentrano così tanto nello sport per superare il trauma di un padre assente. Insomma, ti fai delle domande, ti chiedi cosa c'è che non va.
Ma l'unica cosa che non va è l'approccio dell'azienda che decide di fare comunicazione in modo molto vecchio. E qual è l'azienda? La Procter & Gamble, multinazionale dei detersivi, dei dentifrici e dei prodotti di bellezza. E a chi venderò mai il mio Dash durante le olimpiadi? Ma è ovvio! Alle mamme! Cioè alle donne. Cioè a quegli esseri umani creati per far compagnia agli uomini, fare il bucato e accudire i figli. Questa è la realtà. Questo è il mercato e questo è quindi il marketing.
E allora faccio uno spot per le olimpiadi, e dico W la mamma. E apro una pagina su facebook. E dico a tutti che io sostengo le mamme, perché io alle mamme ci tengo, perché fanno il bucato e comprano il Dash. Per la Procter & Gamble i padri non esistono e ci rimanda l'immagine della sua visione della società. E a noi piace: condividiamo questo spot su facebook piene di lacrime e di emozione e contribuiamo a diffondere un modello che non esiste o che non dovrebbe esistere. E come al solito ci diamo da sole la zappa sui piedi. Siamo così concentrate a celebrare il nostro eroismo quotidiano che non ci accorgiamo che così legittimiamo uno status quo in cui ogni cambiamento diventa molto difficile. Diffondiamo una visione in cui l'uomo non c'è e poi ci lamentiamo perché non c'è. E il tutto, compiacendo anche il marketing dei detersivi.
Non vi sembra eccessivo?

mercoledì 2 maggio 2012

Vorrei solo una vita banale

Non ve l'ho detto per non farvi preoccupare, ma qualche mese fa mi sono fatta qualche giro nei blog maschilisti. Ecco, l'ho detto.
Non uso a caso il termine "maschilista", che sa un po' di faida della terza elementare, perché è l'unico ancora valido per descrivere certi contenuti. Come credo si sia ormai capito, un po' per mia indole che tende al compromesso, e un po' per la mia giovane, giovanissima età (!) ho sempre cercato di andare oltre i termini di femminismo / maschilismo. Quello che mi piacerebbe non è un mondo dove "le donne comandano sugli uomini", né mi interessa dimostrare che le donne sono superiori o il genere dominante. Abbiamo già un bel daffare a districarci tra incomprensioni e rapporti in cui lei seduce, poi fugge, poi sta ferma, poi viene abbandonata, poi lui è insicuro, poi tira fuori i muscoli, poi scappa, poi torna, ecc. per poterci permettere di ridurre tutto a chi comanda e chi no. Quello a cui aspiro io è semplicemente un po' di pace. Svegliarmi la mattina e sapere che, compatibilmente con i mezzi economici, con il tempo a disposizione e nel rispetto delle altre persone, quello che mi va di fare posso farlo. Una serenità così, fatta di tante piccole libertà. Ecco a cosa aspiro. Libertà. Poter circolare a testa alta. Ma no, non a testa alta, ché fa molto valchiria. Diciamo circolare come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Senza che nessuno mi guardi, senza che nessuno commenti o si chieda dove sono i miei figli, se lavoro oppure no, come mi sono vestita, dove sto andando, se ho la busta della spesa, se guido un'auto troppo grande per essere una donna, e via dicendo. Insomma, circolare come se fossi attualmente un uomo, al quale si fanno sempre la metà delle domande che si fanno alle donne. Possiamo noi donne, finalmente, circolare senza avere addosso tutte queste aspettative? Possiamo scegliere senza sofferenza se vogliamo fare le casalinghe e partorire 16 figli o restare da sole facendo solo del buon sesso quando ci va e quando ci capita, o prenderci una laurea e un master e parlare 4 lingue o diplomarci e basta perché non ci va di continuare gli studi, o sposarci e lavorare e fare carriera fino a ricoprire cariche dirigenziali, il tutto senza doverci per forza scarnificare o senza che qualcuno si debba sentire in dovere di dare la propria opinione a riguardo? Solo questo vorrei.
Ma non si può. Non ancora almeno. Si fa un gran parlare in questi giorni delle 54 vittime di femminicidio in soli quattro mesi. Sembra ci sia una guerra. Maschi contro femmine. Femmine contro maschi. E in effetti la cinematografia non aiuta. Probabilmente quelle 54 donne volevano vivere serenamente come lo vorrei io. Volevano lavorare, avere una famiglia, andare in giro tranquillamente senza dover rendere conto a nessuno per le loro scelte personali. Cose così. Banali. "Libera circolazione delle merci e delle persone".
Ma non si può. Le hanno uccise gli uomini, ma non solo. Non voglio continuare qui la guerra tra generi. Perché il vero colpevole è l'ignoranza. La mancanza di cultura, di uomini e di donne, sostituita da una pseudocultura del disimpegno, dove chiunque può dire qualsiasi cazzata e dove si continua a ridere e a fare battutacce sulla stupidità delle bionde, o delle donne al volante, o sulle farfalle di Belen, dove i blog che parlano di orgoglio maschile sono liberi di sostenere che le donne muoiono comunque in numero inferiore agli uomini che crepano nei cantieri facendo un lavoro che le donne non vogliono fare. E vai tu a spiegare che le donne muoiono pure di parto. O che ci sono donne che pagherebbero pur di lavorare in un cantiere e manovrare una gru piuttosto che stare a battere a un angolo di strada per soddisfare gli uomini di quegli stessi cantieri, ma che nei cantieri le donne non ce le vuole nessuno.
Alla base della violenza sulle donne c'è la stessa sottocultura deficiente che sta attorno al problema dell'alcolismo. E ne siamo TUTTI responsabili. Quando accendiamo gli abbaglianti per segnalare agli altri il posto di blocco che fa i controlli con l'etilometro. Quando ridiamo al racconto di un amico che è tornato a casa ubriaco in macchina e non si ricorda come. Quando ci prende l'euforia all'idea di una bella serata in un locale con qualche birra e qualche superalcolico. E poi leggiamo i giornali: oh, che peccato, investita una famiglia da un'auto il cui conducente era ubriaco. Oh che peccato: aumentano i casi di alcolismo tra i giovani. Oh che peccato: hai la cirrosi epatica. Ma è come se le due cose non avessero niente a che fare l'una con l'altra: la cultura del bere non ha niente a che fare con le sue conseguenze negative. Così come la cultura maschilista non ha niente a che vedere con la morte di 54 donne.
Non ci si pensa. Ci si ride su. Non ci si indigna. E se ci si indigna c'è qualcuno pronto a darti del moralista, del pesantone. E invece le cose sono collegate. Le persone muoiono perché c'è gente che si nutre di questa sottocultura dell'ignoranza. Le persone muoiono in strada perché in molti hanno detto che bere va bene, e che non sarà quello a ucciderti. Le donne muoiono in famiglia perché qualcuno non ha spiegato ai loro assassini che essere gelosi non dà la licenza di uccidere, che una compagna non è una proprietà acquisita come la casa o la macchina, che le donne, al pari degli uomini, possono scegliere se e quando interrompere una relazione quando questa non è più soddisfacente. Queste informazioni di base non sono arrivate purtroppo a destinazione. Perché sono state date male, o non sono state date affatto. Perché esistono pezzi interi della nostra società che impediscono a queste informazioni di circolare liberamente. Perché l'ignoranza genera ignoranza. E perché leggere sui giornali l'accostamento delle parole bravata-strage del sabato sera o gelosia-omicidio, non aiuta. Perché si annacqua, si stempera, si sminuisce e alla fine si giustifica.
Io non giustifico.