giovedì 9 settembre 2010

Ricordi d'infanzia

I miei genitori sono persone perbene.
Ma se oggi mi riduco a scrivere post del genere di notte, non senza una vaga ossessione, è colpa loro.

I miei genitori mi hanno educata come se fossi un maschio. Anzi no. Come se fossi asessuata. Una specie di Lady Oscar dei poveri. Tuo padre voleva un maschietto, ma ahimè sei nata tu. I valori che mi venivano trasmessi erano: studio, cultura, lavoro. Il top della parità con i miei amici maschi. I loro input erano così scientificamente al di sopra delle distinzioni di genere, che trent'anni dopo, quando ho partorito Lorenzo, mi sono domandata se la maternità fosse una cosa normale. Osservavo questo neonato e mi chiedevo che cosa mai si aspettasse adesso da me. Che cosa avrei dovuto fare. Cercavo disperatamente di risalire con la memoria a quando da piccola la mamma ti spiega come giocare con la bambola, a come si culla, a come si cambia, a come si pettina. Ma niente. Nessuno mi aveva mai regalato una bambola. Al limite un Monciccì, che però era una scimmia, e per questo richiedeva un grado di assistenza nettamente inferiore. I giochi che mi facevano fare i miei erano tutti basati sull'intelligenza. Ricordo partite infinite a Paroliere. Dove mio padre e mia madre mi umiliavano con parole tipo "perifrastica" o "avvicendamento", mentre io ero lì, muta con la mia lista di "tra" "in" "con" "sol". Mi spronavano a impegnarmi sulla terminologia.
Avevo sei anni.
Quindi al mio neonato ho insegnato subito la consecutio temporum. Per non sbagliare.

Ma c'è un episodio, un doloroso punto di rottura in cui ho creduto che l'educazione transgender dei miei fosse tutta una farsa.

Una sera, i miei genitori organizzano una cena tra amici a casa nostra. In fase di aperitivo, sento mia madre che mi chiama a gran voce. Quando la raggiungo in cucina, mi mette in mano una ciotola di noccioline, chiedendomi di portarla in salotto, agli ospiti. Io la guardo come se fosse un ufo. "Perché non la dai a papà?" chiedo incredula. E allora mia madre mi risponde con quel tono fatto di una punta di acidume sapientemente mixata con una piccola dose di sarcasmo, che solo noi donne sappiamo produrre: "Eh, papà è l'unidicesimo ospite". In effetti mio padre stava comodamente seduto in divano, discettando di politica ed economia con gli altri ospiti, in attesa che succedesse qualcosa. Tipo che la cena si materializzasse come per incanto nel suo piatto. Allora "perifrastica" e "avvicendamento" sono state sostituite da "ignominia" e "sgomento".
A dire il vero, quell'episodio mi ha fatto capire che c'era un baco nel sistema. Come dire: il software è pronto e funziona, ma ci sono dei bug ancora da sistemare. E' come se la nostra società, oggi, fosse un'enorme versione beta ancora da ottimizzare.

Dall'episodio della cena in poi, scovare i bug è diventata la mia missione.

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